lunedì 30 giugno 2008

Il linguaggio del corpo

Era quella pelle bianca che mi faceva impazzire.
I tacchi da dodici rosso porco la slanciavano davvero. Non che ne avesse bisogno: le sue gambe erano lunghe e lungilinee, come fosse un quadro surreale. Eppure nel mio immaginario erotico ci dovevano essere. Poi messi su di lei erano davvero pericolosamente sexy.
Ma non era solo quello a farmi impazzire.
Erano già parecchie ore che eravamo chiusi in quella camera di un agriturismo scelto con cura, ma sperduto nella campagna: la stanza delle perversioni, con il suo baldacchino di ferro battuto, i vasi ai piedi del letto e quelle piante rampicanti color lilla erano il perfetto sfondo. Davanti al letto avevamo consumato del cibo, non perchè avessimo fame, ma perchè ci dovevamo nutrire per sostenere i giochi di sesso che praticavamo da quando la porta era stata chiusa a chiave e il sorriso infoiato si era trasformato in un rumoroso scontro tra corpi vogliosi di attenzione.

Era quella pelle bianca che mi faceva impazzire: percorrerla con i polpastrelli era da perdercisi, vederla reagire alla pressione o al calore degli stessi era un'esplosione di sensi e desideri per entrambi.

Amoreggiammo per ore, dando sfogo all'attesa consumata in fantasie, desideri e parecchia frustrazione.

Ripresomi dall'esplosione iniziale, cercando di raccogliere i pezzi, tra un frutto energetico ed un micro riposo sfilai la cintura di pelle nera dai pantaloni buttati per terra. Lei alzò il sopracciglio. Non che non si prestasse a qualsivoglia porcata che la mia mente potesse pensare: sapevo che non mi avrebbe fermato. Visto da fuori la cosa potrebbbe essere scaduta in un banale quanto usuale uso della stessa sul suo corpo. Invece no. Il suo movimento muscolare era di anticipazione per quello che avrei fatto del suo corpo da lì a breve: sapeva che la cintura era stata comprata apposta per seviziare il suo corpo e lei in realtà non vedeva l'ora di sottoporsi a quella speciale tortura, covata e pensata a freddo, pianificata con lucida follia e che stava per essere eseguita come la più bastarda delle vendette. Peccato che non era a conoscenza della variante. Del profondo stato di instabilità mentale in cui mi aveva portato, passo a passo, con le mie fantasie prontamente confermate dalla sua ninfomania.

Le presi la mano e la trascinai nel bagno.

Le feci appoggiare i palmi sul lavandino freddo e duro, l'esatto contrario del suo corpo.
Solo il colore chiaro dava un elemento di continuità.
Il suo corpo bianco da urlo mi parlava sporco, come se mi stesse invitando, un piatto servito in maniera elegante ed impeccabile.
Non le feci appoggiare i palmi sul bordo, ma le spinsi le mani dentro il lavandino, perchè quello era il modo per rendere la posizione unica, per fare in modo che se lo ricordasse in futuro. Era anche ideale per farle davvero avere la schiena orizzontale: non era la solita passeggiata.
Voleva guardare nello specchio la porca, mi perforava lo sguardo martoriandosi il labbro inferiore. Non aveva speranza: solo io potevo sbirciare, perchè in quel momento ritornavamo indietro nell'evoluzione, lei era la preda, io l'animale. Non l'animale che la possedeva. Quello era banale. L'animale che aveva le chiavi del suo futuro. Che se voleva poteva lacerarle quel culo teso che era a poratat di cinta. che se voleva poteva incularsela a sangue. Che se voleva poteva umiliarla con le parole e con le azioni, sicuro che lei non si sarebbe ribellata e che avrebbe permesso ogni cosa. L'animale che avrebbe alterato la percezione del giocare sporco per il resto della sua esistenza.
Le appoggiai il palmo della mano aperto sulla nuca, poi piano ma inesorabile strinsi il pugno in modo che i capelli, prima lisci e tesi, ora ingarbugliati e dolenti, passassero un messaggio inequivocabile al suo io. Lei chinò la testa sottomessa. Non ci fu bisogno di parlare.

Lei era finalmente lì, come io me l'ero immaginata in tante solitarie sessioni di seghe, a mia completa disposizione, a servire il flusso turbolento del mio lato oscuro.
Percorsi il suo corpo in lungo e in largo, con la punta della cintura nella mano destra, la fibia nella mano sinistra. Era un serpente nero di pelle che si snodava in quella selva lussuriosa, cercando il suo pranzo.
Le cinsi la vita come se la cintura fosse intrappolata da invisibili passanti e la chiusi più stretta che potevo: un piccolo corsetto per un corpo fantastico. Il bianco della sua pelle contrastava col nero della cintura. Lei sapeva cosa sarebbe successo dopo: sapeva che il mio cazzo pulsante l'vrebbe trafitta da dietro e che le mie mani avrebbero afferrato con foga, a scapito della loro circolazione sanguigna, quel lembo di carne animale conciata come supporto per imprimerle un movimento regolarmente più veloce, ma metodico nella sua energia.
La cintura siedeva magicamente sopra le ossa del bacino, e guarda caso le mie mani spingevano verso il basso, intrappolando la sua fessura bagnata tra il perno di carne dura ed l'incavo del mio bacino.
Ruotando i polsi riuscivo ad aumentare la pressione sulla circonferenza del suo corpo, e lei seguiva meglio la guida dei miei movimenti.
Continuai a farmela finchè sentì che il suo sesso si stava gonfiando di sangue e che quindi lei sarebbe venuta di lì a poco.
A quel punto, mi fermai e slacciai la cintura.
Il suo respiro e il suo battito parlavano eloquentemente di un passato di soddisfazione.
La sua faccia interrogativa parlava di un futuro senza lode.
Non sapeva ancora della variante che la stava per invadere.
Presi la punta della cintura ed iniziai ad avvicinarmi al monte di venere. A pressione variabile, saltando da una parte all'altra, sentendo che lei anticipava ogni mio movimento.
Capì che quello che lei era convinta fosse il dolce in realtà era l'antipasto.
La presi in giro finchè il livello di libidine e la voglia del mio cazzo di scoppiare mi fece rimanere lucido, poi abbandonai ogni filtro e controllo, e feci schioccare il lato del cuoio dura sulla sua clitoride.
Una volta, due volte.
La vidi sobbalzare, sempre son le mani ben aperte sul lavandino, la testa china, le gambe che ormai non riuscivano a stare ferme.
Il contrasto tra la dolce pressione sulla clitoride inondata di sesso e lo schioccare della cintura sulla coscia aperta era paragonabile a quello del colore della sua pelle con quello della cintura.
Tre volte, quattro. Numerose.
La cintura cambiò nero perchè ora era tutta bagnata.
Era il momento di cambiare registro.
La penetrai con dolcezza, sapevo che il duro della pelle nera avrebbe avuto il suo effetto: la scopai con la cintura.
Era lubrificata a tal punto che il suo corpo partecipava in armonia a quella situazione nuova, che fondeva il suo passato di passione con il suo futuro deludente: ora era tutto assieme, un presente appagante.

La mia perversione era finalmente compiuta: una cintura sporca di bianco, segno della nostra follia amorosa, della nostra fantasia da adolescenti. Ma soprattutto, una cintura che ancora oggi profuma del suo sesso.
E che io porto addosso giornalmente con un pizzico di nostalgia.

giovedì 26 giugno 2008

Il momento della verità

Avevo pensato al piano B, al piano C e pure a quello D.
Speravo che l'A si avverasse, perchè dopo tanto tempo a masturbarsi la mente era ora di passare al reale.
Ora ero lì, nervoso, guardando con rapidi movimenti dell'occhio a destra e a sinistra.
Mi sentivo come un agente segreto in missione.
Studiavo il territorio, alla ricerca di volti noti, per scongiurare il peggio, per sapere se far partire il piano B.
Areoporto.
Non sapevo quando sarebbe arrivata, non sapevo da quale porta, non sapevo come.
Ma soprattutto non sapevo cosa avrei provato dentro, dopo settimane di attesa.
L'aereo era arrivato, ora era tutto in mano all'agenzia che scarica i bagagli.
Immerso nei miei pensieri, oramai distratto eccola che arriva: due gambe da paura, vestitino rosso corto corto corto, scarpe laccate rosse con tacco da dodici, un sorriso smagliante, gli occhiali da porca, due poppe semi in vista.
Mi gurada negli occhi, sono io il suo machio. La abbraccio.
Il suo odore mi invade.
Percepisco che è in calore. Ha trovato pane per i suoi denti.
In quel momento mi accorgo che abbracciati non la vedo nel suo splendore.
Vedo invece la valigia: gigante. Lo so cosa contiene - lingerie e strumenti per i nostri giochi perversi.
Le do la mano e la porto in macchina.
Una volta dentro mi sciolgo in un bacio liberatorio.
La mia preda è venuta a trovarmi: inizia la chiusa storica.
Ma prima due tappe: in ufficio a recuperare le due scatole di cose collezionate e comprate durante le settimane precedenti: falli artificiali, mutandine di pizzo ma aperte, strumenti di piacere e tortura per i suoi capezzoli, miele, nutella creme e unguenti per sporcarsi tutti in serenità, manette e frustino di pelle, vari oggetti per fotterle il culo, calze di tutte le manufatture, qualche decina di preservativi, una bella Hitachi Magic Wand per farla impazzire e soprattutto il suo regalo per me opportunamente scelto con cura dalle sue proprie mani: un fallo (viola) enorme con un sostegno di pelle che lei rigorosamente indosserà e che mi ha promesso di usare su di me con perversione quando io indifeso e immobilizzato verrò punito dalla sua mente contorta.
Manca solo una cosa prima di lasciarsi al divertimento: una breve sosta al Leroy Merlin di zona per comprare qualche metro di corde, le fascine di plastica per bloccarle i polsi e un telone di plastica da usare per quando useremo l'olio d'oliva.
Chiedere queste cose innocenti ma con fini perversi è una libidine. Gli sguardi d'intesa si sprecano.
Già pregusto la giornata.
Lei non sa neanche che sarà rapita in un posto in mezzo alla campagna ad ululare coi lupi fino all'alba, travolta dalla furia che è in me.
Ripagata dalla sua oscura perversione.
In questo gioco - forse - che ci soddisferà.
Vedremo.
Io non sto più nella pelle, mentre lei mi accarezza il cazzo mentre guido.
Abbiamo bagagli pieni di sesso.
Due corpi affamati.
Due menti vogliose.
Tanto tempo da gustare.
E finalmente è tutto vero.